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Jesto, l’intervista: odio la parola artista. Mi considero, invece, Arte

Jesto intervista
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Jesto salirà sul palco dell’Alcatraz di Milano giovedì 8 novembre alle 21:30 e il 9 sarà all’Orion di Roma alle 22:30.

Le due serate sono l’occasione per presentare live i brani del nuovo concept album “Buongiorno Italia”, pubblicato lo scorso 11 maggio 2018 per Believe Digital.

Per assistere ai concerti, potrete acquistare i biglietti sui circuiti online e nei punti vendita autorizzati di Ticketone, ad un costo di 17,50 euro, incluso il diritto di prevendita.

Cosa aspettarsi dal live dell’Alcatraz? Ecco cosa ci ha raccontato Jesto.

La nostra intervista a Jesto

“Buongiorno Italia” è il tuo quinto album in studio. Quali sono stati i brani con cui hai pensato “scrivo l’album” e “l’album è finito”?

Essendo un concept album sono partito da un concetto, invece che da una canzone, ma sicuramente il brano che ha dato vita a tutto è stato “Buongiorno Italia”: tutto ruota intorno a quella traccia, a quell’idea.

Ho pensato che l’album fosse completato con “Svegliamo Quando”, l’ultima nella track list ed è senza dubbio la più bella di questo disco, se non la più bella che abbia mai scritto.

Mi ha dato una vibrazione particolare, la più forte di tutte e l’abbiamo registrata e inclusa quando il disco era in fase di masterizzazione.

Era da mesi che avevo in testa l’idea di “Svegliami Quando” e tutto quello che serviva era un giro di piano, un po’ alla Conte, ed è stata incisa in soli 15 minuti.

Mi ha trasmesso così tanto che, durante un viaggio in treno, e l’ascoltavo con le cuffie ho pensato che se fossi morto in quel momento, con “Svegliami Quando”, avrei lasciato qualcosa la mondo che farà del bene.

Un brano molto importante e inaspettato.

È la prima volta che affronti tematiche sociali importanti, come la disoccupazione giovanile e la crisi. Lo fai descrivendo l’Italia attraverso stereotipi. 

È vero, ci sono molti luoghi comuni e la scelta non è stata casuale, ma voluta.

Infatti, nel brano “Buongiorno Italia” non sono io a parlare, ma le tante voci dell’Italia, quelle più sentite e passate da ogni media.

Ho semplicemente rielaborato e messo in un “minestrone” tutti questi stereotipi, in modo goliardico e comico, mostrando la versione più grottesca del Paese, che non è di certo la mia visione.

Per colpire questi stereotipi li ho presi, usati e messi dentro al mio circo, che è appunto il mio disco.

Una denuncia, quindi, della situazione contemporanea. Ti senti un po’ come i cantautori degli anni ’70 con le loro canzoni socialmente esposte?

C’è tantissima ispirazione dei cantautori di quel periodo. Inoltre, questo è un disco che ho creato con mio padre (Stefano Rosso), a livello energetico: c’è molto di lui in questo lavoro, sia per quanto riguarda i testi che per il sound.

Un album uscito di “getto”, nato da mesi e mesi di ascolto di dischi, non solo di mio padre, di chi ha scritto la storia della musica di quegli anni, come De André, Rino Gaetano, Giorgio Gaber.

Un’ispirazione filtrata attraverso il mio linguaggio che è quello del rap, con le sue metriche e strutture: un po’ come dare una nuova forma ai grandi classici.

Un’altra cosa che ci accomuna ai cantautori degli anni ’70 è questa: inizialmente, anche loro erano criticati dagli interpreti del “bel canto” perché i loro brani erano parlati e non cantati, anche se con un’intensità comunicativa maggiore.

Un’altra cosa in comune è il fatto di raccontare le vicende legate al periodo storico che vivono, vicende quotidiane, diversamente dalla “grande canzone” che ha temi astratti e generici.

“Io odio la parola artista, non mi considero tale. Mi considero, invece, Arte”

Oltre alla musica, ti esprimi con altre forme d’arte?

Non mi sento più un semplicemente rapper, ma tante cose.

Infatti, sto scrivendo una graphic novel e un mio libro di aforismi, faccio tutto quello che la mia ispirazione mi suggerisce di far uscire e creare.

C’è la necessità di comunicare e, se non lo facessi, esploderei e sono continuamente alla ricerca di stimoli nuovi, che possono arrivare anche da altri stili musicali lontani da me.

Non a caso, sto già pensando al prossimo album.

“Note vocali” è il brano in cui raccogli i messaggi del tuo pubblico. Non ti senti, in qualche modo, responsabile della loro quotidianità e di come viene affrontata grazie alla tua musica?

No, perché noi autori non abbiamo la responsabilità di come gli altri percepiscano i nostri lavori.

Questa canzone è stata scritta dai fan: le frasi che uso, le storie che racconto, sono davvero quelle che ho ricevuto.

È vero, sono messaggi forti come quelli che mi dicono di averli aiutati a recuperare un rapporto importante o a superare un momento difficile.

Ma più di tutti, quelli che mi ringraziano di averli salvati e penso che se arrivano a questo è perché, mentre scrivevo quel particolare pezzo, volevo essere salvato io. Probabilmente hanno recepito la mia stessa vibrazione, afferrando la mia disperazione e facendosi forza, perché non era il solo a vivere certe emozioni. Un po’ una cura psicologica di massa.

Cosa può aspettarsi il tuo pubblico dalla serata all’Alcatraz del prossimo 8 novembre?

Sarà davvero una serata particolare, perché, per esempio, sarà la prima volta che metto insieme la parte strumentale con la parte rap.

Sarà uno spettacolo, quasi, teatrale: ci sarà la mia bipolarità artistica che va da un brano felice ad uno triste.

Un flusso in cui le emozioni si alternano tra i brani del nuovo album e i pezzi storici.

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