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Blonde, il grottesco ritratto di Marilyn Monroe è ora su Netflix. La recensione

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Attesissimo sin dalle prime immagini, Blonde è finalmente arrivato sulla piattaforma streaming Netflix. Il film di Andrew Dominik su Marilyn Monroe, interpretata da Ana de Armas, è un ritratto impietoso della diva delle dive, una tragedia con risvolti quasi horror che affronta per macrotemi (allontanandosi spesso dalla realtà biografica) la disastrosa parabola di una donna che suo malgrado ha incarnato il sogno americano.

Il film, prima di approdare su Netflix, è stato presentato in concorso alla 79° Mostra del Cinema di Venezia, dove è stato accolto con una standing ovation di 14 minuti.

Blonde tritura l’icona Marilyn Monroe

Blonde è un biopic atipico. La storia non segue le vicende della vita di Marilyn Monroe, ma si basa sul romanzo omonimo di Joyce Carol Oates, dove avvenimenti accaduti realmente si mescolano a interpretazioni e riletture delle tragiche vicende che hanno colpito la breve vita dell’attrice.

Scordatevi perciò la biondissima e sorridente icona di bellezza che popola borse dozzinali e citazioni glitterate sul profilo Facebook di vostra zia. La Marilyn di Blonde è un agnello sacrificale, una figurina senza colore che lotta debolmente per essere considerata un essere umano, ritratta senza pietà da una regia estremamente autoriale, che sfocia a volte nel grottesco.

Ana de Armas nei panni di Marilyn Monroe

Ana de Armas ce la mette tutta per dare anima e corpo a un personaggio talmente iconico da rasentare l’inumano. Se la somiglianza fisica l’avvicina più alla compianta Brittany Murphy che a Marilyn, l’interpretazione è di altissimo livello, elevata ancora di più dall’assenza di personaggi secondari memorabili, compreso purtroppo l’Arthur Miller di Adrien Brody, ridotto a un comprimario appena tratteggiato, che priva un ottimo attore del suo spazio di manovra.

Blonde non ha pietà di Marilyn, focalizzandosi con piacere quasi sadico sui drammi della sua vita, lasciando totalmente in ombra la carriera cinematografica, i successi, la crescita come attrice, il rapporto con gli Strasberg e la fiducia nelle proprie capacità recitative.

La Norma Jean di Andrew Dominik non catalizza i suoi sforzi nel lavoro e nella realizzazione personale, ma gira a vuoto, con gli occhioni pieni di lacrime e la bocca perfetta piegata all’ingiù dall’ennesimo schiaffo che la vita le riserva. Le spade conficcate nel cuore di questa biondissima Madonna dolente sono essenzialmente quattro, reiterate con la monotonia di una Passione lunga quasi tre ore. La personale Via Crucis di Marilyn.

Le stazioni della Passione secondo Marilyn

Il film ruota intorno a quattro tematiche cardine dei disperati 36 anni di vita di Marilyn Monroe: la relazione con la madre, il rapporto malato con gli uomini, la mancata maternità e soprattutto la figura assente del padre.

Su quest’ultimo tema Dominik sembra concentrare e riportare ogni singola azione compiuta dalla “sua” Monroe, come punto iniziale e finale della parabola di Blonde. Gli altri temi su cui si focalizza la pellicola scaturiscono tutti da qui, da questo tassello mancante nella vita di Marilyn: suo padre.

Ancora oggi esistono diverse ipotesi su chi fosse il padre della diva, probabilmente un dipendente della Consolidated Film Industries, dove la madre Gladys lavorava, che sparì all’annuncio della gravidanza. Qualcuno ipotizza persino che l’attrice sia nata a causa di uno stupro. Senza dubbio il difficile rapporto che Marilyn Monroe ebbe con gli uomini della sua vita ha radici in questo padre senza nome, cercato e mai ritrovato.

Il film si appropria di questo assunto freudiano e ne fa il martellante leit motiv della storia, dipingendo una donna infantile in maniera quasi patologica, che chiama tutti i suoi amori “Daddy” e rincorre la chimera di questa figura elegante vista solo in fotografia fino all’ultimo istante della sua vita.

Gli uomini che sono stati presenti nella vita della Norma Jean di Blonde sono figure nebulose e disperate, a cui lei si aggrappa per quel briciolo di attenzione maschile tanto desiderato. Dai fratelli Chaplin a Joe di Maggio, da Arthur Miller al presidente Kennedy, qui ritratto come qualcosa più vicino all’animalesco che all’umano.

Nelle tre ore di pellicola vediamo Marilyn più seviziata che amata, fatta a fettine come un pezzo di carne e gettata via una volta consumata fino all’osso. A tutto questo lei risponde con stolida rassegnazione, raccattando gli abiti di seta e i gioielli per passare con un rapido stacco all’uomo successivo.

Adrien Brody e Ana de Armas in una scena del film

Accanto al rapporto con l’altro sesso c’è un terzo tema, trattato dal regista con una retorica piuttosto stucchevole, che sembra persino strizzare l’occhio alle tematiche “pro-life”: la ricerca della maternità.

Marilyn Monroe desiderava enormemente dei figli, ma a causa dell’endometriosi di cui soffriva ebbe numerosi aborti (lei stessa ne confermò 14) e non riuscì mai a portare a termine una gravidanza. La Marilyn di Ana de Armas ha un rapporto tormentato con la mancata maternità, vissuta quasi come una “punizione”, chiarita subito dall’inciso di un medico che le conferma le sue perfette condizioni di salute. Marilyn non riesce a diventare madre perché non ha voluto esserlo la prima volta, spinta dalla paura.

La paura di cosa? Del quarto e ultimo grande tema di questa Passione secondo Marilyn: sua madre. Gladys Monroe era una donna sola e mentalmente instabile, rinchiusa in manicomio quando l’attrice era solo una bambina. La lenta discesa nella follia di sua madre tormenta Marilyn, che teme la stessa fine per sé stessa e per i tanti bambini che non è riuscita ad avere. Gladys non ama sua figlia, non la riconosce quando lei si presenta bionda e truccatissima. Eppure la diva non la lascerà mai sola, omaggiandola prendendo il suo cognome da nubile come nome d’arte.

Blonde premia le ombre

Il film di Andrew Dominik punta i riflettori sullo squallore nascosto dietro la facciata di Marilyn, aggiungendo un carico pesante a una vita già disastrosa di suo. Lo scavare nel grottesco e nell’umiliante sembra più una mossa dettata dall’amore per i contrasti che dalla volontà di raccontare un personaggio iconico.

Cosa c’è di più forte che vedere la massima icona americana entrare nelle stanze di JFK e praticargli sesso orale forzatamente, mentre lui si intrattiene al telefono e i bodyguard leggono il giornale fuori dalla porta aperta?

In Blonde la vita tragica di Norma Jean non riluce della stella di Marilyn, ma resta nella mediocrità, privata del successo che l’impegno costante e la grande forza di volontà le hanno permesso di costruirsi, lasciando al mondo il ricordo di un’attrice che stava diventando sempre più grande, se non si fosse spenta “come una candela nel vento”.