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Padrenostro, la recensione. Pierfrancesco Favino e i 7 minuti di applausi al Festival di Venezia

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Quando il cinema inquadra dall’alto, perpendicolare al pavimento, si dice che è l’occhio di Dio che guarda in giù. Padrenostro di Claudio Noce si introduce allo spettatore in questo modo. Dall’alto al basso osserviamo un bambino. L’idea, suggerita dal titolo e vagheggiata dal prologo, è che sia lo sguardo del padre. Perché per il piccolo Valerio (Mattia Garaci) è come un Dio. Ma quando il vicequestore romano interpretato da Pierfrancesco Favino subisce un attentato, a guardare dal balcone di casa è il figlio. I ruoli cambiano e Noce inizia a inquadrare il padre come un Cristo. Perché sopravvissuto a una trivellata mortale, perciò risorto. O “miracolato” per mano di un Angelo, dirà qualcuno nel film. A questo punto sono trascorsi dieci minuti e Padrenostro ha già interdetto lo spettatore. Perché la storia vera del tentato omicidio di Alfonso Noce, padre del regista, acquista tanti simboli, troppi stimoli, pochi punti fermi.

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Lontana dal resoconto storico, la via intrapresa da Claudio Noce è personale e incerta. Racconta il trauma subito dalla sua famiglia negli anni di piombo, quando lui aveva solo un anno. L’autobiografia è perciò parziale. Gli anni di piombo – siamo nel 1976 – non vengono mai citati. Senza nome anche i NAP, nuclei armati proletari che tentarono di uccidere Alfonso Noce. Il punto di vista è così quello del bambino, tenuto all’oscuro dei fatti ma involontario testimone.

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Pierfrancesco Favino recita con la consueta passione e un fisico che fa da montagna. Ingombrante come il Craxi di Hammamet, ma meno afflitto dal suo peso. Non c’è niente di più grande delle sue spalle osservate dal figlio. Anche se, tornato dall’ospedale dopo il tentato omicidio, le cose iniziano a cambiare. Ora c’è una scorta, una pistola per difesa e gli occhi di mamma così terrorizzati. Si torna agli sguardi. Valerio vorrebbe avere gli occhi di Papà – “sono verdi vero?” chiederà speranzoso – ma condivide le pupille scure della madre, una Barbara Ronchi consumata. Il cast è l’elemento coerente del film. Meno insistito delle scenografie anni ’70 – ostinate sul carosello e gli arredamenti – e più ordinato della ricerca musicale con cui “Buonanotte fiorellino” di De Gregori può commentare un attentato. Quando il film si trasferisce in Calabria, con la scusa di fuggire dalla Roma intaccata dal trauma, ritroviamo volti dalle forme mitiche. Il medico solitario che guarisce una ferita di Valerio è come uno sciamano, rugato attorno a occhi azzurri. Cura il ragazzo, ma non il film.

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A minare la tenuta di Padrenostro è l’elemento che vorrebbe esserne centro. Si chiama Christian (ancora religione?) ed è un bambino un po’ reale e un po’ immaginato. L’incertezza con cui alcuni personaggi lo vedono e altri no porta Noce fuori dal tracciato. Dovrebbe essere una proiezione di Valerio, un trucco della sua mente, ma è anche uno specchio per il padre e il nemico della storia. Troppi ruoli intagliati senza profondità in una storia che da ambigua, come sembra sulle prime, si rivela incompiuta. I tentativi di essere più di un dramma storico si fermano su Christian, che impedisce allo spettatore una storia decisa. Perché Noce rielabora le vicende personali senza sceglierne una forma. Ne consegue un film con tante idee, non espresse, e un messaggio poco chiaro. Le visioni più audaci – la musica che spezza il tono o i rallenty – ambiscono a un’estetica che si rivela superflua. Ci prova, e per questo Noce merita una visione. Perché poteva andare peggio: poteva essere una fiction.