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25 aprile, il racconto di un partigiano in terra straniera

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Il giorno della Liberazione è una di quelle ricorrenze istituzionali su cui tanti preferiscono sorvolare: si posa una corona di fiori, si fa un breve discorso e si evitano polemiche.
Nella mia famiglia il 25 aprile ha sempre avuto un’aura di orgoglio, toccando una parte di storia personale che durante l’infanzia ho mitizzato, creando uno scenario eroico di lotta tra il bene e il male.

Crescendo ho capito quante sfumature ci fossero nell’animo umano, che un mondo diviso in assolutamente buoni e assolutamente cattivi esiste solo nelle sceneggiature scritte male.
La Resistenza non è fatta di colori, ma di uomini. Anzi, di ragazzini.
Uno di questi ragazzini è riuscito a tornare dal fronte di Srem, dove sono morti più di 13 mila soldati delle formazioni partigiane jugoslave, si è fatto una famiglia e ha avuto una nipote.

Un contadino col mitragliatore

Mio nonno è morto quando avevo sei anni. Lo ricordo come un uomo magro, talmente fragile da rischiare di prendere il volo a ogni soffio di vento. Un vecchietto pacifico, che dava da mangiare alle galline e scoppiava a ridere quando, chiamando Lea, il suo cane da caccia, mi presentavo io, Bea.

Quel signore, con gli occhi enormi incavati nel viso segnato dagli anni, era un eroe di guerra. Un partigiano.
Un contadino della campagna pavese che era un asso del mitragliatore, un mitraljez in serbo, la lingua che aveva imparato e mai dimenticato.

In cucina, appesa alla parete, c’era una medaglia incorniciata. Una croce appesa a un nastrino blu. Ho sempre pensato fosse uno dei premi vinti da mio padre durante la carriera di calciatore, o la medaglia di una gara di ciclismo vinta dal nonno quando era giovane.
Quella croce era una medaglia al Valore Militare, conferita al soldato Livio Curti nel 1968, ventitré anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
Un ringraziamento, ricevuto via posta, per aver contribuito alla Liberazione.

Storie di nonni

Non ho mai sentito storie di guerra direttamente dalla bocca di mio nonno, non ne ho avuto il tempo. Le storie di guerra dei nonni erano il tema di molti compiti assegnatici alle elementari, e molti dei miei compagni di classe avevano avuto il nonno, o entrambi i nonni, impegnati al fronte.

Erano racconti entusiasmanti, di bombe e carrarmati, di fucili e pistole. Nessun nonno raccontava ai nipotini di quanta paura avesse, di quanto freddo facesse in Russia e di quanto si fosse sentito solo. Nemmeno il mio, quando raccontava le sue avventure ai due figli, che ogni sera al posto della favola della buonanotte chiedevano la storia di quando si era nascosto a casa di una famiglia jugoslava, o di quando ha disertato scappando oltre il confine per unirsi alla Resistenza.
Non raccontava dei morti, del rumore o dei sei mesi passati in ospedale a causa degli stenti e della fatica.

A migliaia di chilometri da lui c’erano anche i suoi fratelli: uno spedito in Russia e tornato talmente provato da non aver mai raccontato cosa aveva visto, l’altro rimasto a casa perché troppo giovane per il fronte, ma abbastanza grande per imbracciare un fucile e unirsi alle formazioni partigiane di Voghera, il paese in provincia di Pavia dal quale nessuno di loro si era mai allontanato prima dell’arruolamento.
Un quarto fratello è rimasto in Albania, ucciso nell’ottobre del 1943 da soldati che fino al mese prima erano compagni.

Nel giro di pochi giorni quattro ragazzi dai 19 ai 30 anni hanno dovuto decidere da che parte stare, se uccidere o essere uccisi. Hanno scelto di tornare a casa, nella campagna che conoscevano e alle loro famiglie.
Livio ha scelto di camminare, camminare e camminare per centinaia di chilometri, dalla Sirmia, una regione sperduta tra la Croazia e la Serbia fino a casa sua, a Voghera.

Ricostruire una storia così grande, specialmente in una famiglia come la mia, che ha fatto della riservatezza la sua bandiera, è praticamente impossibile.
Resta a ricordarmi quanta forza possa nascondersi in un anziano contadino dell’Oltrepo e nei suoi giovani fratelli, la lettera di accompagnamento a quella medaglia col nastrino blu incorniciata in cucina: “evaso dalla prigionia di guerra, si univa alle formazioni partigiane in terra straniera. Nel corso di una vittoriosa offensiva, era di valido esempio ai commilitoni per lo sprezzo del pericolo. Srem (Jugoslavia) dicembre 1944-maggio 1945

 

Foto di proprietà della famiglia Curti. Tutti i diritti riservati