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Un re allo sbando: la nostra recensione della commedia belga

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Cosa significa essere un re al giorno d’oggi, e come un monarca può essere di ispirazione per il proprio popolo? Sono le domande legate alla storia raccontata dal film Un re allo sbando (in originale King of the Belgians), la commedia presentata in concorso nella sezione Orizzonti del Festival di Venezia 2016, in uscita il 9 febbraio.

Realizzato seguendo la formula del mockumentary – ovvero il falso documentario in stile The Office – il film segue le disavventure del re del Belgio Nicolas III e del suo entourage, a loro volta ripresi costantemente dalla telecamera di un regista britannico, Duncan Lloyd, cui è stato chiesto di realizzare un film sulla figura del regnante.

La popolarità di Nicolas, lo intuiamo sin dalle prime immagini, deve essere infatti molto bassa: taciturno, di natura contemplativa, comandato a bacchetta dalla moglie, poco sciolto nelle occasioni ufficiali e dotato di un fisico imponente che intimidisce i suoi interlocutori, il re ha decisamente bisogno di una “operazione simpatia” mediatica che lo renda più accattivante agli occhi dei suoi sudditi.

Questi propositi però vengono messi in dubbio durante una visita diplomatica in Turchia: all’improvviso Nicolas, seguito dal suo capo del protocollo, dall’ufficio stampa e da un valletto, oltre che dal cineasta, viene a sapere che il Belgio non esiste più in quanto tale. La Vallonia ha infatti dichiarato l’indipendenza, e il Paese è nel caos. Urge ritornare in patria, ma la sfortuna vuole che una tempesta solare abbia messo messo fuori uso tutti i satelliti, le telecomunicazioni e anche i mezzi di trasporto aerei.

Con la sicurezza turca decisa a tenerli segregati per evitare complicazioni, la missione diplomatica belga deciderà di intraprendere un viaggio attraverso l’Europa per consentire a Nicolas III di pronunciare il suo discorso di riunificazione davanti al popolo, il primo scritto di proprio pugno.

È un oggetto insolito e decisamente poco allineato ai canoni quello proposto dai due registi Jessica Woodworth e Peter Brosens, poco noti al grande pubblico ma maggiormente conosciuti dai cultori del cinema d’autore, che avranno avuto modo di vedere l’originale e interlocutorio La quinta stagione.

Una rapida occhiata alla sinossi di Un re allo sbando lascerebbe credere di trovarsi di fronte un road movie esilarante, denso di eventi, di situazioni insolite, personaggi carismatici e un facile umorismo. E invece, per quanto questa base di fondo sia rispettata, il tono che la coppia di cineasti ha deciso di dare al film è molto più riflessivo, quasi più interessato al sotterraneo processo di crescita e di presa di coscienza del re rispetto alle follie di un viaggio che porta l’entourage a calcare territori bulgari, serbi e albanesi.

Per far ciò i due registi hanno deciso di girare il film cronologicamente, lasciando ampio spazio di improvvisazione sia in fase di sceneggiatura che agli attori stessi, con risultati a volte buoni, ma più spesso di difficile decifrazione; il montaggio poi privilegia la lunga durata delle scene, nelle quali le gag vengono diluite e si spengono nella contemplazione paesaggistica o dei volti dei personaggi, spesso ripresi in pause di riflessione o platealmente confusi; e infine anche la colonna sonora (per la maggior parte classica, tra Grieg, Ravel, Bach e Vivaldi) che dona un senso di grandezza alla pellicola.

Le due anime purtroppo non si sposano bene, e si direbbe che la mancanza di idee, visive e di sceneggiatura, che affligge il film sia stata compensata in fase di montaggio con l’aggiunta dei momenti più statici, nei quali Nicolas III inizia a comprendere quali siano le sue potenzialità. L’ironia del film, che prende in giro garbatamente – forse anche troppo – stereotipi nazionali ed europee pomposità, deriva tutta dalla giustapposizione di scene in contrasto tonale, mentre i vari ostacoli incontrati dal gruppo vengono risolti grazie a deus ex machina alquanto deludenti.

Difficile appassionarsi a una storia che per quanto girata in un modo che simula la spontaneità in realtà rimane artificiosa per la maggior parte della sua durata: non mancano le risate, e alcuni sorprendenti momenti di commozione, ma l’impressione è quella di un’occasione mancata a causa della mancanza di decisione e per la volontà di rimanere con il piede in due scarpe.

Il nostro voto: 5

Una frase: «La dichiarazione di indipendenza recita: Stiamo stufi»

A chi piacerà: agli spettatori che si accontenteranno delle belle e inedite immagini dei Balcani.

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