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Notti magiche: la recensione dell’ultimo film di Paolo Virzì

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Vi è una nostalgia triplice al centro di Notti magiche, il nuovo film di Paolo Virzì: quella piĂą superficiale indicata direttamente dal titolo, in riferimento ai mondiali di Italia ’90, quando la Nazionale venne eliminata dall’Argentina ai rigori; quella per un passato glorioso del cinema italiano, osservato con affetto in un momento in cui si manifestano evidenti i primi sintomi di decadenza; e infine quella per l’incoscienza e l’innocenza della giovinezza, incarnata dai tre protagonisti.

La pellicola del regista livornese, in uscita l’8 novembre nelle sale cinematografiche, si presenta come un giallo, ha la struttura e i modi della commedia, ma segretamente cova il desiderio di commuovere lo spettatore come si trattasse di un film drammatico. In passato Virzì si è mostrato capace di centrare pienamente gli ultimi due obiettivi, quello del riso e della lacrima, mentre per quanto riguarda la suspense (qui solo accennata e invero pretestuosa) risuona forte il fallimento de Il capitale umano.

Notti magiche: la trama

Eugenia Malaspina, Antonio Scordia e Luciano Ambrogi sono i tre finalisti del prestigioso premio Solinas che viene attribuito ogni anno a Roma alla migliore sceneggiatore redatta da un giovane promettente: i tre si conoscono rocambolescamente alla cerimonia di premiazione, durante la quale trionfa il secondo, mostrando ognuno il proprio carattere con tanto di peculiaritĂ  e tic.

La prima è l’insicura e nevrotica rampolla di una famiglia bene romana, Antonio è un timido dottorino siciliano che si produce in ampie dimostrazioni di tuttologia, esprimendosi come un libro stampato, mentre l’ultimo è un livornese pieno di vita, arrembante, incapace di tenere le mani a posto e in grado di infilarsi in ogni pertugio, lavorativamente parlando.

Tre personaggi dai caratteri molto differenti, dunque, che si ritrovano catapultati nel mondo del cinema romano, tra osterie frequentate da sceneggiatori e registi storici (nominati direttamente o la cui identitĂ  viene solo lasciata intuire), incontri di lavoro con produttori e attori piĂą o meno millantatori, malintenzionati, improvvisati o semplicemente narcisisti, promesse di ingaggio e produzione dei propri testi, lavori da “negro” (uno scrittore su commissione che non firma i testi) e così via.

Sullo sfondo di una Roma tanto affascinante e verace quanto infida e decadente, le vicende dei tre confluiscono nel loro coinvolgimento nella morte di Leandro Saponaro, il produttore che vorrebbe produrre la storia di Antonello da Messina scritta da Antonio: la macchina dell’uomo precipita nel Tevere proprio nell’istante in cui l’Italia del calcio si dispera, e il trio è tra i principali sospettati dalle forze dell’ordine (rappresentate da un Paolo Sassanelli fin troppo sopra le righe).

Notti magiche: la recensione

Duole dirlo, ma l’aspetto che maggiormente emerge durante i 125 minuti del film è una certa sciatteria e trascuratezza. Non soltanto dal punto di vista tecnico (la fotografia digitale spesso e volentieri ha sfumature che ricordano quel “color cacarella” presa in giro dal personaggio di Roberto Herlitzka), ma anche e sopratutto da quello della sceneggiatura, da sempre punto di forza principale di Virzì

Sembra incredibile a dirsi, ma nelle due ore di durata nessun elemento riesce a emergere con forza tale da giustificare l’esistenza del film. Le storie dei tre protagonisti sono abbozzi poco significativi, limitate anche dal ritratto al limite della caricatura dei personaggi, con i quali raramente si riesce a empatizzare. Nota di demerito anche per gli attori lasciati a briglia sciolta, senza indicazioni ravvisabili, che dunque si producono in una galleria di tic e manierismi recitativi fastidiosi e meccanici.

L’eccezione, almeno in parte, è costituita dal livornese di Giovanni Toscano, piĂą profondo del previsto e protagonista dell’unico vero colpo di scena che riporta il film su binari piĂą consoni alla sensibilitĂ  di Virzì: il piĂą volte citato tinello, l’osservazione della realtĂ  nei suoi aspetti piĂą teneri e grotteschi, la vicinanza agli ultimi, la messa in scena di ciò che si conosce meglio e che appare piĂą urgente.

Non che il discorso sul mondo del cinema sia in questo senso da cassare in toto: è evidente l’origine autobiografica di molte osservazioni, e nel corso del film si avvicendano varie scenette gustose, che però rimangono al livello di aneddotica utilizzata a fini pedagogici (“il cinema di una volta, tanto ingiusto quanto vitale”) o teorici-pedagogici (“bisogna guardarsi intorno per scrivere storie interessanti”). Anche il tributo ai grandi vecchi della settima arte nostrana rimane a livello di un Catalogo delle navi dell’Odissea, una rassegna per iniziati che dirĂ  poco allo spettatore meno preparato in questo campo e che al massimo susciterĂ  un sorriso all’esperto.

Di fronte alla mancanza di una focalizzazione di intrecci, caratterizzazioni e messa in scena rimane la sensazione che Virzì abbia voluto vibrare il proverbiale colpo al cerchio e alla botte: omaggio nostalgico ma pungente a una città, quasi fosse un La grande bellezza in piccolo, e a un modo di intendere e fare il cinema ormai svanito; carezza affettuosa e insieme strigliata alle nuove generazioni, pronte al compromesso ma succubi della faciloneria che li circonda.

Volendo dire e nominare tutto – non manca una tarantinesca strizzata d’occhio al filone del poliziottesco – il cineasta si dimentica per strada tutto ciò che di buono ha disseminato nel suo film, nella fattispecie alcuni personaggi marginali che avrebbero meritato maggiore attenzione: il cascatore finito a fare l’autista del grande produttore per riconoscenza, la ruspante fidanzata di Luciano, il regista timido, poetico e taciturno dietro il quale si nasconde Antonioni.

Invece queste figure, non a caso le piĂą minute, popolari e autentiche, finiscono sacrificate in un’opera che difficilmente verrĂ  ricordata come una delle piĂą riuscite nella filmografia dell’autore de La prima cosa bella e Ovosodo.

Il nostro voto

5

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