Galleria Vittorio Emanuele II: 10 curiosità sul “salotto di Milano”

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Galleria Vittorio Emanuele II: 10 curiosità sul “salotto di Milano”

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Ancora oggi la Galleria Vittorio Emanuele II conserva gelosamente l’appellativo di “salotto di Milano”. Qui infatti si concentrava la vita borghese meneghina, tra boutique eleganti, ristoranti e caffè. Ancora oggi chi cammina sotto la sua volta di vetro ha la sensazione di trovarsi in un salotto d’altri tempi, tra gonne fruscianti sul marmo e tazzine di porcellana tintinnanti. Scopriamo 10 segreti che questo splendido luogo, vero simbolo di Milano, custodisce gelosamente!

10. Un progetto difficoltoso

Si narra che il primo ad avere l’idea di una via commerciale che collegasse Piazza Duomo a Piazza della Scala fu Carlo Cattaneo, nel 1839. Ma si dovette attendere il 1860 affinché il Comune potesse lanciare il concorso per la sua realizzazione. Parteciparono ben 176 architetti, ma nessun progetto convinse la giuria.

9. Una lunga costruzione

A vincere il bando per la costruzione della Galleria fu l’architetto emiliano Giuseppe Mengoni. Il 7 marzo del 1865 re Vittorio Emanuele II in persona posò la prima pietra della grande opera a lui dedicata. La costruzione andò avanti in tempi record, concludendosi dopo soli tre anni.

Un’immagine della Galleria durante i lavori di costruzione

Mancavano però i lavori conclusivi, fermi a causa del fallimento della ditta appaltatrice nel 1869. Ciò costrinse il Comune di Milano a rilevare la Galleria, per la cifra record di 7,6 milioni di lire del tempo. Gli ultimi lavori terminarono nel dicembre del 1877.

8. Inaugurata da una tragedia

L’architetto Mengoni non poté vedere omaggiato il suo capolavoro: il giorno prima dell’inaugurazione, il 30 dicembre 1877, precipitò da una delle impalcature poste all’ingresso della Galleria, dove era salito per ispezionare gli ultimi dettagli delle finiture.

La targa in ricordo dell’architetto Mengoni all’ingresso della Galleria

Fin dai primi momenti in molti parlarono di un suicidio: Mengoni non avrebbe retto le continue e pesanti critiche al suo lavoro, distruggendo il suo sogno di entrare nel novero dei grandi grazie alla sua opera così innovativa, ispirata alle eleganti gallerie in ferro e vetro che stavano sorgendo nelle capitali europee.

Il grande architetto non venne dimenticato dai milanesi, intellettuali e non: ai suoi funerali parteciparono migliaia di persone, tra cui anche il pittore Francesco Hayez, amico e sostenitore di Mengoni. Oggi il “papà” della Galleria riposa al Cimitero Monumentale, sotto una scultura dell’artista Francesco Barzaghi che lo ritrae insieme all’adorata figlia, morta nel 1880.

7. L’ottagono centrale

Si chiama così lo spazio che si trova all’intersezione tra il braccio principale, che collega piazza Duomo a piazza della Scala, lungo 196,6 metri, e il braccio più corto, di 105,1 metri.  La sua forma è stata ottenuta dal taglio dei quattro angoli all’incrocio delle gallerie e in cima alle pareti si possono ammirare le quattro lunette raffiguranti i quattro Continenti: Europa, America, Asia e Africa. 

La cupola centrale al suo apice è alta 47 metri: per realizzarla, insieme alla tettoia di copertura, furono impiegate ben 353 tonnellate di ferro e 7 milioni e 850mila metri quadrati di lastre di vetro rigato.

6. Illuminazione futuristica

La Galleria Vittorio Emanuele II durante le ore notturne era un tripudio di luce: sotto la sua volta in vetro non si dormiva mai, grazie ai numerosi locali e caffè che animavano (e animano ancora!) la notte milanese. L’illuminazione delle decine e decine di lampade a gas era affidata a un divertente sistema automatizzato, che i milanesi avevano ribattezzato “ratin” (“topolino”): si trattava di una piccola locomotiva che accendeva progressivamente i lumi lungo tutto il perimetro della Galleria. Quando il ratin entrava in funzione i milanesi accorrevano per assistere alla “magia” del salotto di Milano che veniva inondato di luce.

Il fedele topolino della Galleria andò in pensione nel 1883, quando si passò a un sistema di illuminazione elettrico. Alcuni ci erano arrivati un pochino prima però, come il Caffè Gnocchi, che si serviva dell’innovazione tecnologica già da tre anni!

5. Grandine, guerra e manifestanti: non c’è pace per i vetri!

Una delle caratteristiche principali della Galleria sono sicuramente le sue vetrate, che ricoprono 7800 m² di superficie sopra le teste dei suo frequentatori. A queste si aggiungono le decine di vetrine dei negozi e dei caffè lungo il perimetro dei quattro bracci.

Nel corso della storia i cristalli della Galleria non hanno avuto vita facile: sin dalla sua costruzione, il “salotto di Milano” ha ospitato proteste e manifestazioni sempre più accese, in un periodo della storia di Milano molto teso, culminato nella repressione a cannonate dei moti di Milano del 1890 da parte del generale Bava Beccaris. Ogni scontro in Galleria terminava, quasi come una tradizione consolidata, con la distruzione delle vetrine dei negozi, andate in pezzi centinaia di volte nei primi 40 anni di vita della struttura.

La Galleria distrutta dai bombardamenti del 1943

A questa pioggia di vetro si aggiunge quella della copertura, così all’avanguardia per i suoi tempi: il 13 giugno 1874, mentre i lavori erano ancora in corso, una violenta grandinata distrusse parte delle vetrate appena installate.

Fu però la guerra a far pagare il prezzo più alto in termini di devastazione: il 15 e il 16 agosto 1943 le bombe anglosassoni colpirono più volte la Galleria, distruggendo interamente la copertura in vetro e danneggiando pesantemente anche le travature in acciaio e le decorazioni interne. La ricostruzione avvenne molto lentamente, partendo solo nel 1948 e terminando nel 1955.

4. Istituzioni dell’aperitivo

Nonostante la sua inaugurazione formale sia avvenuta solo nel 1877, la Galleria era già terminata nel 1867, anno in cui si insediarono i primi esercizi commerciali. Tra questi alcuni caffè e ristoranti, veri centri della vita sociale e politica di Milano. Qui si riunivano intellettuali e lavoratori, dai Futuristi capitanati da Filippo Tomaso Marinetti, a giornalisti, scrittori, artisti e poeti.

Cosa racconterebbero quei tavolini se potessero parlare! Alcuni luoghi di ritrovo della Milano ottocentesca sono ancora lì, saldamente al loro posto a osservare una città che cambia con una velocità impressionante. Nel 2022 possiamo ancora sedere al bancone del Caffè Campari, del Savini, nato come Caffè Gnocchi e del Caffè Biffi, vere sentinelle della vita mondana meneghina.

Umberto Boccioni, Rissa in Galleria, 1910, olio su tela, Pinacoteca di Brera, Milano

Il Caffè Campari, o Camparino, esistente in Galleria sin dalla sua costruzione, vanta anche un altro merito: sono le sue vetrine ad apparire in uno dei più famosi dipinti del Futurismo: Rissa in Galleria, realizzato nel 1910 da Umberto Boccioni. Due donne si azzuffano davanti a un caffè, con le sue luci abbaglianti a illuminare la scena. Nel frattempo una folla di curiosi accorre a osservare la rissa, cercando invano di porvi fine. Le stesse vetrate, ora ornate dalla scritta “Campari” sono visibili ancora oggi affacciate verso Piazza del Duomo.

3. Un mosaico senza pace

La pavimentazione della Galleria è realizzata a mosaico, dalla ditta leccese dei fratelli Peluso, inventori di una tecnica innovativa per la durevolezza delle pavimentazioni pubbliche a mosaico. La bellezza delle decorazioni, specialmente il grande stemma sabaudo al centro dell’Ottagono, era tale che prima di essere installate a Milano, vennero esposte per alcuni giorni nelle vetrine di Piazza S. Oronzo a Lecce.

La prima immagine a cui si pensa quando si parla dei mosaici della Galleria non è però lo stemma di Casa Savoia, ma quello della città di Torino, situato a poca distanza. In un momento non precisato della storia, iniziò a diffondersi la voce che ruotare col tallone per tre volte sui testicoli del toro portasse fortuna.

Nel 1967, in occasione dei 100 anni della Galleria, l’intera pavimentazione venne rifatta, per rimediare ai danni, mai sistemati, fatti dalla guerra. Per limitare il vandalismo contro il povero toro a mosaico, l’animale venne ridisegnato senza “attributi”. Ma come tutti sappiamo, questo non è bastato a fermare le orde di turisti che ogni giorno ripetono il gesto scaramantico, costringendo il Comune a effettuare continui restauri.

2. Oro e nero: i colori del salotto

Sin dal Dopoguerra un’ordinanza comunale impone ai negozi che aprono all’interno dei prestigiosi spazi della Galleria una regola: le insegne del brand devono essere posizionate nelle fasce sovrastanti le vetrine e devono rigorosamente essere di color oro su fondo nero.

In questo modo l’innata eleganza del “salotto di Milano” viene rispettata, evitando che si trasformi in una qualunque infilata di negozi al coperto. A questa regola dovette sottostare anche McDonald’s, nel corso degli anni in cui ebbe un punto vendita (non poco criticato) all’interno della Galleria.

1. Ispirazione nel mondo

Abbiamo parlato di quanto le critiche feroci sulla costruzione della nuova Galleria avessero ferito l’architetto Mengoni, tanto da far cadere sulla sua tragica morte i sospetti di un suicidio. Quello che il povero architetto non poté sapere è che la sua opera ha ispirato moltissime altri edifici in Italia e nel mondo.

Tra tutti la Galleria Umberto I di Napoli, realizzata tra il 1887 e il 1890 dall’architetto Emmanuele Rocco, per risanare un quartiere della città partenopea rinomato per le sue taverne losche e le case di malaffare, dove spesso scoppiavano epidemie di colera. La Galleria divenne così il “salotto di Napoli”, ospitando locali e caffè dove sedevano figure come Matilde Serao, Gabriele d’Annunzio, Eduardo Scarfoglio e Francesco Crispi.

Lo stile della “galleria commerciale” colpì moltissimi imprenditori americani, attratti dall’idea di un luogo elegante dedicato allo shopping. Nacquero così il The Galleria a Houston e il Galleria Dallas, entrambi realizzati con copertura in vetro e acciaio ispirata alla Galleria Vittorio Emanuele II. Anche uno dei più antichi centri commerciali americani, la Cleveland Arcade, realizzata nel 1890, si ispira in modo abbastanza palese alla “nostra” Galleria, così come l’Eaton Centre di Toronto e la Kö Galerie di Düsseldorf.