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Dove non ho mai abitato con due magnetici Devos e Gifuni. La nostra recensione

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Ci sono film che possono non riuscire e questo era stato il caso, in particolare, di ‘E la chiamano estate‘ di Paolo Franchi, presentato al Festival di Roma nel 2012. Abbiamo voluto cominciare da una sorta di “dove eravamo rimasti” per chiedervi di non farvi influenzare da quel ricordo, “abbandonandovi” al suo ultimo lavoro: Dove non ho mai abitato. Protagonisti sono, in particolare un uomo (Fabrizio Gifuni) e una donna (Emmanuelle Devos) – e detta così volutamente vogliamo rimandare al mood di cui era imbevuto il film di Lelouch. Francesca arriva in un modo che non potrà non tornare in mente alla fine, quasi si chiudesse un cerchio. Vive a Parigi, “è l’unica figlia di Manfredi (Giulio Brogi), un famoso architetto che da quando è vedovo abita a Torino e che lei va a trovare solo in rare occasioni” (dalla sinossi), com’è quella del compleanno. Dopo un infortunio domestico, la donna sceglie di rimanere per un po’ accanto a suo padre, il quale – senza interpellarla – la pone di fronte al fatto compiuto di seguire un progetto di una villa su un lago per una giovane coppia di innamorati.

A portar avanti il nome dello studio c’è Massimo (Gifuni per l’appunto), completamente dedito al lavoro, e d’impatto poco incline a interagire in merito a un proprio progetto, verso cui mostra “gelosia”. La sceneggiatura (scritta a sei mani con Rinaldo Rocco e Daniela Ceselli) si rivela un tappeto emotivo ben scritto, su cui gli interpreti hanno saputo suonare le giuste corde, dando la percezione di essersi lasciati andare (nella giusta misura), sotto l’ottima direzione di Franchi. La macchina da presa ora resta lontana (basti pensare alla scena in ospedale in cui quasi spiamo da lontano quel rapporto “sospeso” tra padre e figlia) ora sta addosso ai personaggi, con dei primi piani che calamitano l’attenzione. Da spettatori non si riesce a distogliere lo sguardo, si è quasi ipnotizzati da volti che letteralmente bucano lo schermo (permettete l’espressione), con Gifuni e la Devos magnetici per quell’espressività così peculiare di ciascuno di loro, che, in questo film, si è incontrata.

Magari l’idea dell’approccio difficile tra Massimo e Francesca potrebbe apparire “scontata”, ma le pieghe che prenderà la storia non lo sono. Lavorando alla costruzione di una casa che non abiteranno (se non per istanti) si crea una sintonia che li “costringe” naturalmente a far i conti con ciò che hanno costruito loro nelle proprie vite. La stessa giovane coppia interpretata dai credibili Fausto Cabra e Giulia Michelini, funge da specchio riflettente, sia nell’accezione più concreta dello star insieme che sulla funzione metaforica del “costruire una casa”. Assistendo a ciò che si dipana sotto gli occhi, vi saranno palesi certe dinamiche, a partire dal come mai la nostra protagonista abbia scelto un marito sulla sessantina (Hippolyte Girardot), ricco finanziere ma soprattutto protettivo. Dove non ho mai abitato diventa per lo spettatore un’onda di emozioni, in cui i punti di climax arrivano ben studiati nell’architettura del film. Si può restare spiazzati dal non detto per poi ritrovarsi a vibrare con tutto ciò che passa e va oltre lo schermo.

Co-protagonista ideale è la passione, la sua scoperta, la paura di seguirla, l’atto di averla censurata e altre declinazioni da scoperchiare vedendo il film. I colori autunnali, in dialogo col paesaggio fisico (curatissimo il contrasto tra gli interni e gli esterni) e interiore, si tingono di un sapore amaro, frutto di una consapevolezza di sé ben diversa da quando era cominciato il viaggio.

Franchi torna ai toni degli esordi e, in particolare de ‘La spettatrice’, confezionando un film definibile classico, il che non è sinonimo di impersonale o peggio ancora pesante, anzi. “Ho cercato di mettere a servizio il mio stile al genere “sentimentale”, nel senso più nobile del termine. La melanconica prosa di Cechov e i personaggi “morali” e altoborghesi di Henry James hanno certamente influenzato la mia ispirazione. Una ricerca che ha anche una volontà di ritrovare atmosfere di film passati. Lo si può chiamare vintage. Derivativo. Postmoderno. O semplicemente classico”, ha dichiarato lo stesso regista.

Si esce dalla sala con la sensazione di una dolce malinconia, avendo addosso gli occhi di un uomo e nelle orecchie le parole di una donna che hanno scoperto l’amore, se stessi e anche gli spazi vuoti (e chissà quanti ne restano di inconsci). Le conseguenze di tutto ciò, però, non possiamo e non vogliamo spoilerarle perché Dove non ho mai abitato le fa provare sulla propria pelle e ognuno le vivrà secondo la personale sensibilità.

Voto 8

Una frase: Non ti perdoni mai niente

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